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Il cambiamento (radicale) di Bruce Springsteen

Chi è, oggi, il Boss? Una riflessione su cosa c’è e cosa manca negli show teatrali di questo tour
Il cambiamento (radicale) di Bruce Springsteen

Nella vita si cambia, costantemente. Cambiamo punti di vista e opinioni, abitudini e gusti, idee e stili di vita, e questo ci rende noi stessi. Le idee fisse ci sono ma, come ci dice la Treccani, “si dicono idee fisse o coatte o incoercibili o ossessive certe rappresentazioni che per il loro contenuto non avrebbero nulla di morboso, ma che acquistano valore morboso per la loro insistenza intempestiva e invincibile, che perturba il corso del pensiero, fissa l'attenzione del malato e recalcitra a ogni diversivo”. Quindi cambiare non è solo sano ma è naturale, come cambia il nostro corpo, impercettibilmente, costantemente, da quando nasciamo fino alla nostra fine. Prendere atto dei cambiamenti, nostri e altrui, è anche un modo per comprendere il mondo in cui viviamo. 

Da  “High Hopes” a “Only the Strong Survive”

Prendere atto che Bruce Springsteen possa cambiare, sia cambiato, non è una critica negativa, ma un semplice dato di fatto, un modo per comprendere meglio lui e la sua arte. E Springsteen è cambiato spesso nella sua vita e nella sua carriera, come può facilmente comprendere chiunque ascolti, anche solo superficialmente, i suoi dischi e i suoi concerti. Mettete semplicemente in fila i suoi ultimi lavori, il rock e la memoria di “High Hopes”, la melodia raffinata di “Western Stars”, l’intimità raccolta e appassionata di “A Letter To You”, il soul rivisitato di “Only the Strong Survive”, ogni volta musiche, suoni, intenzioni, risultati diversi, niente che si ripeta, niente che sia uguale. Quindi Springsteen cambia. Per fortuna. Perché se fosse sempre lo stesso, lo stesso di “Rosalita”, di “Born in the Usa”, di “Human Touch”, delle “Seeger Sessions” o di “Wrecking Ball”, comunque sempre diverso, non sarebbe lo Springsteen che amiamo e che abbiamo seguito nei cinquanta anni esatti della sua carriera discografica, da quel 1973 in cui esplose con due album in un anno solo. 

I concerti

Si può dire, con qualche ragione, che la cosa che era cambiata di meno, nel corso del tempo, era il suo modo di stare in scena, di proporre concerti, non era cambiato il suo rapporto con il pubblico, quella straordinaria e unica capacità di trasformare uno stadio in una chiesa nella quale officiare un clamoroso rito in cui bellezza, speranza, vita, dolore, gioia, allegria, buio e luce, celebrati sull’onda di una musica in grado di trascendere il suo stesso ‘piccolo’ significato, quello immediato, vero e personale per il quale lui, in origine, l’aveva scritta. Ma non è vero, ovviamente, perché anche i suoi concerti negli anni sono cambiati, e molto, anche il suo modo di stare in scena, di relazionarsi con la band e il pubblico, ha subito sane e giuste variazioni nel corso del tempo, cambiati sono i compagni di viaggio, cambiato è il suono, sempre, di tour in tour.

Un cambiamento radicale 

Questa volta, però, il cambiamento è stato più radicale, visibile, certo, manifesto, chiaro a tutti. Lo Springsteen del 2023 non è più non solo quello del 1973, come ovvio, ma neanche quello di sette anni fa, quando nel 2016 fece il precedente giro di concerti con la E Street Band. 
Sette anni: nessuno resta uguale a se stesso per così tanto tempo, forse nemmeno quelli che hanno le ‘idee fisse’ di cui parlavamo all’inizio. Nessuno, soprattutto chi, nel frattempo, anzi da prima, ha fatto un grande, poderoso, difficile e per molti versi ‘spettacolare’ (nel senso che lo ha in tanti modi condiviso con il suo pubblico) lavoro su se stesso. Negli ultimi dieci anni, forse anche qualcuno di più, ha attraversato la depressione, ha prima scritto una ricchissima autobiografia e poi ha proposto uno spettacolo teatrale fatto di memorie, racconti e canzoni, nel quale ha raccontato se stesso e il suo male, ma anche la sua battaglia, la sua rivincita, le sue insicurezze e le sue certezze, uno spettacolo ‘recitato’, che ha sensibilmente trasformato anche il concetto di ‘autenticità’ che ha sempre caratterizzato il suo modo di stare in scena. E anche il tour del 2016 con la E Street Band era un tour di ‘memoria’, visto che il  ‘cuore’ dello show era “The River”. E di memoria era ricco “A letter to you” e lo stesso ultimo album soul. Scavo, recupero, ricostruzione, memoria, sono le costanti degli ultimi anni, che si riflettono nella sua arte e nei suoi spettacoli. Si riflettono nel suo ultimo tour, dove il costante richiamo al passato, alla fine, al sentimento della perdita, rende per forza di cose il concerto diverso da tutti i precedenti. Per fortuna.

Meno improvvisaizione 

Springsteen è cambiato, dunque, il suo modo di stare in scena lo è più di tutto: la quota di ‘improvvisazione’, è ridotta la minimo, la scaletta cambia pochissimo di sera in sera, e non subisce variazioni in corso d’opera se non per il minimo. La band ha un impatto sonoro profondamente diverso da quello del tour precedente, non fosse altro perché si tratta di una piccola orchestra, con tre fiati e quattro coristi che si aggiungono ai tre componenti ‘extra’ della E Street Band, per quanto ormai stabili, ovvero Soozie Tyrell, Charles Giordano e Jake Clemons. Il che ha un effetto non secondario non solo sul suono ma anche sullo svolgimento del concerto, che Springsteen ha ancorato a una scaletta di ferro, con poche possibili varianti e una durata sensibilmente inferiore a quella abituale. È un male? È un difetto? No, è impossibile dire che il risultato finale sia in qualsiasi maniera negativo, ma è anche impossibile negare che la differenza sia evidente. 

Cosa manca

La differenza è in termini musicali, basta pensare a una “Born in the USA” il cui impatto non è garantito dalle tre chitarre in scena e dalle caratterizzanti tastiere, ma anche e fortemente (diciamo che l’effetto non è esattamente il migliore, ma si tratta di gusti ovviamente) dai fiati. Ma lo è in termini assoluti, perché qualcosa ‘manca’.
Manca il ‘rito’, non c’è la ‘messa’, non è l’incontro tra il ‘messia’ e i suoi fedeli. O meglio, i fedeli ci sono e il messia pure, ma è il messaggio ad essere cambiato e quindi anche la ‘necessità’ di un certo tipo di rapporto tra Springsteen e il suo pubblico. Ho più volte descritto i concerti di Springsteen negli anni come un'esperienza fondamentale, non solo per chiunque ami la popular music, il rock, per chi crede alla capacità che la musica ha di cambiare le vite di chi la ascolta, ma per chiunque in generale, una sorta di esperienza mistica in grado di far vedere, a chi partecipa all’evento, il mondo con occhi diversi, la vita come un’incredibile e vastissimo mare di possibilità, la speranza di salvezza e redenzione, quali che siano, anche piccole, infinitesimali, quotidiane, come reale e fondamentale motore delle nostre esistenze. Bene, non è più così, o almeno lo è solo in parte è certamente per chi, con qualche fatica, vuole ancora cercarle e trovarle nel concerto dell’artista del New Jersey. 

Cosa c'è: un tour teatrale

Bruce ha dismesso i panni del messia, coscientemente. Lo ha fatto da tempo nei dischi, lo ha fatto certamente nel suo show teatrale, doveva, era necessario, lo facesse anche con la E Street Band. Il che non vuol dire che i suoi messaggi di speranza, salvezza e redenzione non ci siano più, o che lui stesso li consideri ‘superati’, ma che li ha messi in un’altra prospettiva. I momenti cardine dello show non sono ‘Born to Run’ o ‘Thunder Road’, nemmeno ‘The Rising’, ma le  canzoni e le spiegazioni in cui, novità assoluta, canta e parla mentre sui grandi schermi appaiono le traduzioni di quello che dice. Momenti straordinariamente intimi, anche se ‘recitati’, anche se uguali ogni sera, che danno il senso e il tono dello spettacolo. Springsteen non vuole equivoci, vuole che quello che dice venga compreso da tutti, vuole che quello che canta sia chiaro, vuole che si capisca cosa lo show rappresenta, cosa per lui è importante. Poi, è ovvio, il rito c’è comunque, la ‘messa’ funziona, è sempre vero che i concerti di Springsteen non sono come tutti gli altri, anche se questa volta la ‘diversità’ è meno evidente e forse anche meno importante. Springsteen ha 74 anni e guarda alla vita e alla musica, come è giusto che sia, diversamente da come le guardava prima, bisogna prenderne atto e apprezzare le sue scelte, la sua verità, il suo modo di essere se stesso.

 Può non piacere? È lecito, ognuno reagisce come meglio crede a quel che vede e sente. Io, per quel che mi riguarda, mi sono divertito, emozionato, sono stato travolto quando era necessario, ho pensato quando serviva, o urlato e ballato, non come nei concerti precedenti, non ‘di meno’ ma diversamente. Perché anche io, ovviamente, sono cambiato dal 2016 a oggi, e non poco.
Un'ultima nota: Springsteen non è Gesù, non deve devolvere i suoi averi per ogni buona causa nel pianeta, fa quello che sente di dover fare, con onestà. C’è chi pensa che avrebbe dovuto farlo per l’Emilia devastata dall’alluvione? Sarebbe stato giusto, nel caso, chiederlo agli artisti italiani, prima. Ma anche agli industriali, agli imprenditori, ai politici, ai fornai, agli operai, ai negozianti….

C’è chi ha pensato, e tra quelli il sottoscritto, che avrebbe potuto dire una parola, anche piccola, durante il concerto di Ferrara, su quanto accaduto a pochi chilometri di distanza. Little Steven ci ha fatto sapere che il Boss e la band non ne sapevano nulla, sapevano solo che avrebbero suonato in un’arena particolarmente fangosa. Impossibile dubitare delle sue parole. Ho scritto l’indomani che quel silenzio sembrava ‘strano, sbagliato’. Oggi quel silenzio ci è più chiaro e va bene così. 

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